mercoledì 27 gennaio 2010

SCIENZA E VEDANTA - LA FORMA UMANA
E L'EVOLUZIONE DELLA COSCIENZA (PARTE QUINDICESIMA).
A cura di Andrea Boni.

(La Quattordicesima Parte è consultabile QUI)


La Ricerca della Felicità.

Il Sutra I.1.12 del Vedantasutra è uno dei più importanti dell'intera opera. Esso afferma che la natura più profonda e vera, quella ontologica, dell'essere vivente è ananda, ovvero pura felicità.

Sutra I.1.12
Anandamayo'bhyasat

Anadamayah – completa beatitudine, Abhyasat – a causa della ripetizione .

[Ciò che è indicato con la parola] anandamaya [ovvero felicità, beatitudine, è il -Brahman, la Verità Assoluta] a causa del ripetuto uso [della parola Brahman in connessione ad essa] – 12.

Commentario Scientifico.
La felicità è uno stato di benessere da molti mai sperimentato in maniera cosciente e consapevole se non attraverso qualche stato d’animo passeggero, una sorta di afflato; ma la vera felicità non è temporanea, è altresì uno stato permanente di beatitudine. Cosa impedisce l'ottenimento di un siffatto stato? Il sopraggiungere e l'imperversare dei condizionamenti nel campo mentale. La felicità è come una costante che vive in noi, proprio come la vita. Badarayana nel suo dodicesimo sutra dice Anandamayo'bhyasat. Il Brahman, e quindi il sé, è ananda, pura felicità. La felicità è quindi la natura propria di ogni essere, non è qualcosa che va cercato esteriormente e chissà dove. Non abbiamo da prendere degli arei e andare in un'isola caraibica! La felicità è in noi ma spesso non la percepiamo perché siamo occupati a percepire altro. Ad esempio in un bosco di notte possiamo sentire lo squittio di un animale a decine di metri di distanza. In un bosco di giorno possiamo sentire una cicala a cento metri di distanza, ma in una discoteca o in mezzo al traffico di una strada urbana, non sentiamo il rumore emesso dalla cicala neanche se la teniamo in mano. Quindi non è una questione se la felicità c’è o non c’è, Badarayana ci dice che la felicità c’è da sempre e per sempre come la nostra immortalità (sat). La nostra eternità esiste ma siamo noi che non la percepiamo. La maggior parte delle persone non percepisce la propria immortalità, e come conseguenza non percepisce la propria felicità. Non dobbiamo fare qualcosa di particolare per diventare felici, semplicemente occorre destrutturare i condizionamenti della mente. Questo l'insegnamento principale dello yoga. La felicità è un bene ontologico e inalienabile, noi lo possiamo soltanto perdere a causa della nostra falsa percezione. Nessuno di noi può rinunciare alla felicità poiché si presenta come bisogno irrefrenabile della nostra natura intrinseca, proprio come l'amore. Non ci possiamo privare dell’amore, e infatti tutti noi in modo più o meno distorto perseguiamo questo obiettivo, talvolta in maniera tale da complicare le relazioni in cui siamo coinvolti, ma certamente non possiamo rinunciare a perseguire un così elevato raggiungimento. Se l’amore non c’è, la nostra vita diventa la ricerca dell’amore, in qualche forma, se la felicità non c’è, diventa la ricerca della felicità, ma comunque trattasi di bisogno irrefrenabile. Quindi, l’immortalità, la felicità, la saggezza, sono irrefrenabili, sono bisogni di cui noi non possiamo fare a meno. Si immagini l’aria, qualcuno pensa forse di poterne fare a meno? Evidentemente no, ebbene così come non si può fare a meno dell'aria allo stesso modo non si può fare a meno dell’amore. In mancanza della felicità le persone si accontentano di un surrogato materiale, quello che comunemente viene definito piacere, il quale tuttavia è caratterizzato dal fatto di essere effimero e quindi, in quanto tale, in definitiva porta maggiore sofferenza. A tal riguardo Krishna nella Bhagavad Gita (V.22) afferma: “La persona intelligente si tiene lontana dalle fonti della sofferenza [il piacere effimero], determinate dal contatto dei sensi con la materia. O figlio di Kunti, tali piaceri hanno un inizio ed una fine, perciò l'uomo saggio non se ne compiace”. Parmenide d’Elea, un grande filosofo presocratico diceva: “Ciò che è non può non essere, ciò che non è non può essere”. La felicità “è”, quindi ha come caratteristica sua propria l’indipendenza rispetto all’ambiente esteriore, pertanto è un bene duraturo, eterno, che soddisfa pienamente la componente più profonda della nostra personalità, il sé. Quando la felicità dipende dall’ambiente esteriore, ovvero quando viene smorzata o ridotta da cause esterne, allora non è la vera felicità. Oggi c’è in effetti una concezione sbagliata del termine. Si scambia per benessere ciò che è temporaneo e che quindi non appartiene alla categoria della vera felicità. Da un punto di vista scientifico si potrebbe definire una proporzione e affermare che l’amore sta alla felicità come l’eros sta al piacere. Certo, questa affermazione in pieno 2010, in una società dove la libertà di espressione e azione (anche sessuale) sembra essere il più alto ottenimento, appare piuttosto forte, ma è pienamente contestualizzata e giustificata nell'ambito della filosofia Indovedica. Certamente non c’è niente di male nell’eros, guai se non ci fosse l’eros! Le zone erogene nel corpo ci sono ed hanno la loro funzione. Ad esempio anche gli animali hanno una mappatura erotica nel corpo: le vacche provano piacere quando allattano i vitelli, se non lo provassero tirerebbero dei calci; mamma orso prova piacere quando allatta i cuccioli, se non provasse piacere li graffierebbe e li prenderebbe a calci o li sbranerebbe. Il piacere nell’atto sessuale è quindi giustificato perché garantisce la continuazione della specie. Non c’è niente di male se noi riconosciamo che abbiamo ancora nel corpo dei residui istintivi, l’importante è che non diventiamo schiavi di quegli strumenti che sono a disposizione per la mera sopravvivenza e appunto, in quanto strumenti, dovrebbero essere utilizzati per fare un cammino di conoscenza ed emancipazione al fine di riscoprire la nostra reale natura. Ma la vera felicità non è mera sopravvivenza, non è mera continuazione della specie, è un salto di qualità verso un livello superiore. Se siamo sulla strada giusta, e quindi in una prospettiva evolutiva, va bene anche conseguire un semplice risultato, un gradino, due gradini verso la vetta dell'emancipazione; sappiamo infatti che c’è tanta strada da fare e i condizionamenti devono essere destrutturati con pazienza e tolleranza, ma è importante comunque camminare sulla via della perfezione e andare nella direzione giusta. C’è un verso interessante della Bhagavad Gita: “Questo sapere è il re di tutte le scienze, il più segreto dei segreti. E' la conoscenza più pura, e poiché permette di realizzare con percezione diretta la propria vera identità, è la perfezione della religione. Tale cnoscenza è eterna e si applica con gioia” (Bhagavad Gita IX.2). In questo verso Krishna spiega che la felicità non è collocata tutta al traguardo, bensì è un bene che può essere acquisito lungo la strada, e man mano che ci si avvicina all'orbita energetica della felicità, è possibile sentire il suo calore, possiamo vedere il suo bagliore, sentire la sua musica ed il suo profumo e quella è già felicità. 'Raja vidya raja guhyam' dice Krishna, questo è il sovrano dei saperi, tra le cose da conoscere, è la regina delle conoscenze, il re dei saperi, e mentre il viaggio continua e si compie in questa operazione di avvicinamento, la felicità comincia a manifestarsi. Come quando se andiamo verso il sole che sorge sentiamo sempre più luce e calore, allo stesso modo se ci poniamo nella direzione giusta dal punto di vista evolutivo, attraverso l'aderenza a principi etico-morali elevati, attraverso la valorizzazione degli altri, e amando il nostro prossimo, allora fin da subito sentiremo di entrare in connessione con l'armonia Universale che sottende a tutta la creazione, e ritroveremo la giusta sintonia, la giusta frequenza. Vibrando allo stesso modo dell'armonia cosmica, essendo parte di quella stessa natura, il nostro sé ritroverà allora la felicità vera e perenne.

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