mercoledì 27 gennaio 2010

STUDIO DELL'UNIVERSITÀ DI PADOVA.

La religiosità rallenta demenza senile.

L'attitudine alla spiritualità si assocerebbe a una riduzione dalla velocità del decadimento cognitivo
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VENEZIA - La religiosità, intesa come attitudine alla religione o spiritualità, rallenta la progressione della demenza senile. È quanto emerge da uno studio di due ricercatori della Clinica geriatrica dell' Università di Padova, diretta dal professor Enzo Manzato e pubblicato sulla rivista «Current Alzheimer Research».


LO STUDIO - Lo studio è stato condotto su 64 pazienti affetti da Alzheimer in differenti stadi della malattia, monitorando per 12 mesi la progressione della demenza, dopo aver suddiviso gli ammalati in due gruppi: quelli con un basso livello di religiosità e quelli con un moderato o alto livello di religiosità. Per un anno i pazienti sono stati sottoposti a test per misurare il loro stato mentale e la loro funzionalità nelle attività quotidiane, sia quelle che permettono un primo grado di autosufficienza (vestirsi, lavarsi e mangiare da soli) sia quelle maggiormente complicate (come telefonare). I malati del gruppo con basso livello di religiosità hanno avuto nell'anno una perdita delle capacità cognitive del 10% in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio-alto. 
Le malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer non sono guaribili, farmaci e condizioni particolari di vita possono solo rallentarne la progressione. «È noto che gli stimoli sensoriali provenienti da una normale vita sociale rallentano il decadimento cognitivo - spiega il professor Manzato - ma nel caso dello studio riportato sembra essere proprio la religiosità interiore quella in grado di rallentare la perdita cognitiva. Non si tratta quindi di una ritualità cui si associano determinati comportamenti sociali, bensì di una vera e propria tendenza a credere in una entità spirituale».

(Fonte agenzia Ansa).
SCIENZA E VEDANTA - LA FORMA UMANA
E L'EVOLUZIONE DELLA COSCIENZA (PARTE QUINDICESIMA).
A cura di Andrea Boni.

(La Quattordicesima Parte è consultabile QUI)


La Ricerca della Felicità.

Il Sutra I.1.12 del Vedantasutra è uno dei più importanti dell'intera opera. Esso afferma che la natura più profonda e vera, quella ontologica, dell'essere vivente è ananda, ovvero pura felicità.

Sutra I.1.12
Anandamayo'bhyasat

Anadamayah – completa beatitudine, Abhyasat – a causa della ripetizione .

[Ciò che è indicato con la parola] anandamaya [ovvero felicità, beatitudine, è il -Brahman, la Verità Assoluta] a causa del ripetuto uso [della parola Brahman in connessione ad essa] – 12.

Commentario Scientifico.
La felicità è uno stato di benessere da molti mai sperimentato in maniera cosciente e consapevole se non attraverso qualche stato d’animo passeggero, una sorta di afflato; ma la vera felicità non è temporanea, è altresì uno stato permanente di beatitudine. Cosa impedisce l'ottenimento di un siffatto stato? Il sopraggiungere e l'imperversare dei condizionamenti nel campo mentale. La felicità è come una costante che vive in noi, proprio come la vita. Badarayana nel suo dodicesimo sutra dice Anandamayo'bhyasat. Il Brahman, e quindi il sé, è ananda, pura felicità. La felicità è quindi la natura propria di ogni essere, non è qualcosa che va cercato esteriormente e chissà dove. Non abbiamo da prendere degli arei e andare in un'isola caraibica! La felicità è in noi ma spesso non la percepiamo perché siamo occupati a percepire altro. Ad esempio in un bosco di notte possiamo sentire lo squittio di un animale a decine di metri di distanza. In un bosco di giorno possiamo sentire una cicala a cento metri di distanza, ma in una discoteca o in mezzo al traffico di una strada urbana, non sentiamo il rumore emesso dalla cicala neanche se la teniamo in mano. Quindi non è una questione se la felicità c’è o non c’è, Badarayana ci dice che la felicità c’è da sempre e per sempre come la nostra immortalità (sat). La nostra eternità esiste ma siamo noi che non la percepiamo. La maggior parte delle persone non percepisce la propria immortalità, e come conseguenza non percepisce la propria felicità. Non dobbiamo fare qualcosa di particolare per diventare felici, semplicemente occorre destrutturare i condizionamenti della mente. Questo l'insegnamento principale dello yoga. La felicità è un bene ontologico e inalienabile, noi lo possiamo soltanto perdere a causa della nostra falsa percezione. Nessuno di noi può rinunciare alla felicità poiché si presenta come bisogno irrefrenabile della nostra natura intrinseca, proprio come l'amore. Non ci possiamo privare dell’amore, e infatti tutti noi in modo più o meno distorto perseguiamo questo obiettivo, talvolta in maniera tale da complicare le relazioni in cui siamo coinvolti, ma certamente non possiamo rinunciare a perseguire un così elevato raggiungimento. Se l’amore non c’è, la nostra vita diventa la ricerca dell’amore, in qualche forma, se la felicità non c’è, diventa la ricerca della felicità, ma comunque trattasi di bisogno irrefrenabile. Quindi, l’immortalità, la felicità, la saggezza, sono irrefrenabili, sono bisogni di cui noi non possiamo fare a meno. Si immagini l’aria, qualcuno pensa forse di poterne fare a meno? Evidentemente no, ebbene così come non si può fare a meno dell'aria allo stesso modo non si può fare a meno dell’amore. In mancanza della felicità le persone si accontentano di un surrogato materiale, quello che comunemente viene definito piacere, il quale tuttavia è caratterizzato dal fatto di essere effimero e quindi, in quanto tale, in definitiva porta maggiore sofferenza. A tal riguardo Krishna nella Bhagavad Gita (V.22) afferma: “La persona intelligente si tiene lontana dalle fonti della sofferenza [il piacere effimero], determinate dal contatto dei sensi con la materia. O figlio di Kunti, tali piaceri hanno un inizio ed una fine, perciò l'uomo saggio non se ne compiace”. Parmenide d’Elea, un grande filosofo presocratico diceva: “Ciò che è non può non essere, ciò che non è non può essere”. La felicità “è”, quindi ha come caratteristica sua propria l’indipendenza rispetto all’ambiente esteriore, pertanto è un bene duraturo, eterno, che soddisfa pienamente la componente più profonda della nostra personalità, il sé. Quando la felicità dipende dall’ambiente esteriore, ovvero quando viene smorzata o ridotta da cause esterne, allora non è la vera felicità. Oggi c’è in effetti una concezione sbagliata del termine. Si scambia per benessere ciò che è temporaneo e che quindi non appartiene alla categoria della vera felicità. Da un punto di vista scientifico si potrebbe definire una proporzione e affermare che l’amore sta alla felicità come l’eros sta al piacere. Certo, questa affermazione in pieno 2010, in una società dove la libertà di espressione e azione (anche sessuale) sembra essere il più alto ottenimento, appare piuttosto forte, ma è pienamente contestualizzata e giustificata nell'ambito della filosofia Indovedica. Certamente non c’è niente di male nell’eros, guai se non ci fosse l’eros! Le zone erogene nel corpo ci sono ed hanno la loro funzione. Ad esempio anche gli animali hanno una mappatura erotica nel corpo: le vacche provano piacere quando allattano i vitelli, se non lo provassero tirerebbero dei calci; mamma orso prova piacere quando allatta i cuccioli, se non provasse piacere li graffierebbe e li prenderebbe a calci o li sbranerebbe. Il piacere nell’atto sessuale è quindi giustificato perché garantisce la continuazione della specie. Non c’è niente di male se noi riconosciamo che abbiamo ancora nel corpo dei residui istintivi, l’importante è che non diventiamo schiavi di quegli strumenti che sono a disposizione per la mera sopravvivenza e appunto, in quanto strumenti, dovrebbero essere utilizzati per fare un cammino di conoscenza ed emancipazione al fine di riscoprire la nostra reale natura. Ma la vera felicità non è mera sopravvivenza, non è mera continuazione della specie, è un salto di qualità verso un livello superiore. Se siamo sulla strada giusta, e quindi in una prospettiva evolutiva, va bene anche conseguire un semplice risultato, un gradino, due gradini verso la vetta dell'emancipazione; sappiamo infatti che c’è tanta strada da fare e i condizionamenti devono essere destrutturati con pazienza e tolleranza, ma è importante comunque camminare sulla via della perfezione e andare nella direzione giusta. C’è un verso interessante della Bhagavad Gita: “Questo sapere è il re di tutte le scienze, il più segreto dei segreti. E' la conoscenza più pura, e poiché permette di realizzare con percezione diretta la propria vera identità, è la perfezione della religione. Tale cnoscenza è eterna e si applica con gioia” (Bhagavad Gita IX.2). In questo verso Krishna spiega che la felicità non è collocata tutta al traguardo, bensì è un bene che può essere acquisito lungo la strada, e man mano che ci si avvicina all'orbita energetica della felicità, è possibile sentire il suo calore, possiamo vedere il suo bagliore, sentire la sua musica ed il suo profumo e quella è già felicità. 'Raja vidya raja guhyam' dice Krishna, questo è il sovrano dei saperi, tra le cose da conoscere, è la regina delle conoscenze, il re dei saperi, e mentre il viaggio continua e si compie in questa operazione di avvicinamento, la felicità comincia a manifestarsi. Come quando se andiamo verso il sole che sorge sentiamo sempre più luce e calore, allo stesso modo se ci poniamo nella direzione giusta dal punto di vista evolutivo, attraverso l'aderenza a principi etico-morali elevati, attraverso la valorizzazione degli altri, e amando il nostro prossimo, allora fin da subito sentiremo di entrare in connessione con l'armonia Universale che sottende a tutta la creazione, e ritroveremo la giusta sintonia, la giusta frequenza. Vibrando allo stesso modo dell'armonia cosmica, essendo parte di quella stessa natura, il nostro sé ritroverà allora la felicità vera e perenne.

mercoledì 20 gennaio 2010

L'ORDINE IMPLICITO (IL DHARMA) NEL 'GRANDE [POEMA DEI] BHARATA'.
'La Provvidenza afferma che in questo mondo solo il Dharma è supremo
e quando il Dharma viene sostenuto diffonde la pace'.
(Mahabharata II.60.1374).

Di Marco Ferrini.

La sacralità del Mahabharata viene enunciata per l’intero corso dell’opera, non solo in virtù del formidabile messaggio spirituale di cui è portatore (cfr. Bhagavata Purana I.4.25), ma anche in quanto caratterizzato dalla discesa (avatara) di Dio nel mondo “per la protezione dei buoni, la distruzione degli empi e la preservazione del Dharma”. Il Dharma rappresenta probabilmente il principale insegnamento del Mahabharata; esso è infatti la costante, l’idea centrale, il filo rosso che unisce anche quelle narrazioni che sembrano discostarsi dal nucleo della storia e che danno senso al poema nella sua interezza. Il Dharma è quella Forza divina che tutto muove, regola e sostiene, l’Equilibrio universale, la Legge sacra, la Giustizia eterna, l’insieme degli infallibili Princìpi della Religione che regolano la vita etica, morale, politica, sociale e familiare di ciascun essere. La parola sanscrita Dharma va dunque oltre il normale concetto di legge. Se talvolta è possibile trovarci di fronte ad una legge ingiusta, non si potrà mai imbatterci in forme ingiuste di Dharma in quanto il Dharma è Legge divina, al contempo causa ed effetto dei sacri Veda. Mentre insegna a re Yudhishthira la scienza politica, il grande saggio Narada afferma infatti che il Dharma è trayi-mula, espressione che può essere interpretata in due modi: A) I tre Veda sono la base del Dharma e B) il Dharma è la base dei tre Veda.


La natura “sottile” del Dharma
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Il concetto di Dharma pervade la cultura del Mahabharata, e di consegenza tutta la Cultura Indiana, presentandosi sotto svariate forme, non sempre intellegibili. Il Dharma è infatti di origine divina (cfr. Bhagavata Purana, VI.3.19) e, in quanto tale, presuppone sempre l’ulteriorità propria della dimensione metafisica, che va oltre la portata dell’intelletto umano. Quando ad esempio re Drupada non riesce a capire come sia possibile che il Dharma di sua figlia sia sposare tutti e cinque i Pandava, suo figlio Dhrishtadyumna, che condivide i sentimenti del padre, ne conferma la complessità: "Il Dharma è denso di sottigliezze, perciò non possiamo assolutamente comprenderne tutte le dinamiche. Non è possibile stabilire se questo matrimonio è autorizzato dal Dharma o se fa parte dell'Adharma" (Mahabharata I.188.11). Strettamente connesso ai concetti di Karma (azione-reazione), Prakriti (Natura materiale) e Samsara (ciclo di nascite e morti ripetute), il Dharma viene più volte descritto nel corso dell’opera nella propria natura “sottile”, ma in quanto concepito dal Signore per regolare l’azione di chi si trova confinato nella dimensione spazio-temporale, nel “qui” ed “ora” propri della vita incarnata, esso si propone sempre anche in una dimensione concreta, destinata ad essere vissuta e quindi compresa, per quanto possibile, da ogni creatura vivente. Da qui la responsabilità di ciascun uomo nel custodire il Dharma, al fine di recidere definitivamente i nodi del cuore e conseguire lo scopo sommo della vita, che consiste nell’ottenimento della comunione con Dio. Esistono due tipi fondamentali di Dharma, cioè il Dharma che vale per tutti gli uomini e il Dharma peculiare cui ciascun individuo deve attenersi in base al proprio ruolo sociale. La prima forma di Dharma, caratterizzata da generosità, benevolenza, amore verso tutte le creature, va sotto il nome di Sanatana Dharma (Dharma eterno) ed è conosciuta nel Mahabharata come “ottuplice via del Dharma”, costituita di sacrificio (ijya), studio del Veda (adhyayana), carità (dana), ascesi (tapas), veracità (satya), pazienza (kshama), compassione (ghrina) e assenza di cupidigia (alobha). La seconda forma di Dharma, conosciuta come Sva-Dharma (Dharma specifico), si riferisce appunto ai doveri specifici che ogni individuo ha il compito di svolgere in seno al proprio contesto sociale, per cui, ad esempio, le norme che regolano la vita dello spiritualista (brahmana), non potranno essere le stesse cui devono attenersi il principe guerriero (kshatriya), il commerciante (vaishya) o il servitore (shudra). Il Mahabharata afferma che ogni essere umano dovrebbe eseguire i propri doveri senza invadere quelli altrui, nel rispetto delle norme eterne (Sanatana Dharma). Nella Bhagavadgita è spiegato che l'assegnazione dei doveri specifici (Sva-Dharma) avviene sulla base delle tendenze (guna) e delle esperienze (karma) di ciascuna persona. Si può fare l'esempio di una squadra di calcio. Una volta assegnati i ruoli, il successo della squadra dipenderà dall'esecuzione dei doveri specifici da parte di ciascun individuo, che non dovrà assumere il ruolo che spetta ai compagni di squadra. Perciò Krishna afferma ancora nella Bhagavadgita (XVIII. 47-48): “E' meglio compiere il proprio Dharma, anche se in modo imperfetto, che accettare il dovere di un altro e compierlo perfettamente. Eseguendo i doveri prescritti secondo la propria natura non s'incorre mai nel peccato. Ogni impresa è coperta da qualche errore, come il fuoco è coperto dal fumo. Perciò, o figlio di Kunti, nessuno deve abbandonare l'attività propria della sua natura, anche se presenta errori”. Vediamo alcuni esempi tratti direttamente dal grande poema epico. Deposte le armi e abbandonati i doveri regali, re Vasu cominciò a praticare ascesi con l'intenzione di ottenere la potenza necessaria a raggiungere la posizione di Indra, re dell'universo. Allora Indra in persona si recò da Vasu e gli disse di non mischiare i suoi doveri legittimi di sovrano con la funzione governativa di Indra, poiché un imperatore protegge il Dharma verificando che tutti eseguano i loro doveri specifici: "Sovrano della terra, il Dharma dei re non dovrebbe essere confuso. Proteggi il Dharma, poiché quando viene sostenuto, esso sorregge l'universo intero" (Mbh. I.57.5). Similmente Dhritarashtra, esortando il figlio Duryodhana a non invidiare i Pandava e a non bramare la loro legittima posizione, dichiara: "La ricerca esasperata volta ad ottenere la proprietà altrui si rivelerà un atto vano. Prospera colui che è pienamente soddisfatto di quello che possiede e compie il proprio Dharma" (Mbh. II.50.6). Dovremmo rilevare che la correttezza di una particolare azione dipende dal Dharma specifico di colui che la compie. Ne è un esempio la storia di Shakuntala. Il giovane re Dushyanta cerca di convincere l'affascinante fanciulla Shakuntala a sposarsi con lui tramite il matrimonio Gandharva, che consiste in un'unione spontanea dei membri della coppia senza che questi abbiano prima chiesto il consenso dei genitori. La sua richiesta si basa sul fatto che questo tipo di matrimonio può essere preso in considerazione dai membri della classe regale (Kshatriya) e Shakuntala, anche se allevata da un brahmana, il saggio Kanva, di fatto è figlia del guerriero Vishvamitra. Shakuntala accetta la proposta di Dushyanta, ma si sente in grande imbarazzo quando l'amato padre adottivo Kanva ritorna a casa. Però Kanva le dice: "Tu sei di stirpe regale, perciò quel che hai fatto oggi, unendoti con un uomo senza prima esserti consigliata con me, non viola il Dharma. Si dice che per un membro della classe regale il matrimonio Gandharva sia il migliore. [In questo caso] l'unione che avviene in un luogo solitario per il desiderio sia dell'uomo che della donna, senza che questi si consiglino con qualcuno, è autorizzata" (Mbh. I.67.25-26). L'aderenza ai principi del dharma, ed in particolare ai doveri prescritti ad ognuno di noi, pone l'essere in armonia con l'ordine implicito, con quell'armonia che sottende a tutta la manifestazione cosmica. Come conseguenza di questo allineamento riemerge in modo naturale l'armonia già presente in ognuno di noi e che caratterizza la parte più profonda della nostra personalità, la nostra vera essenza. Al contrario, agendo contro il dharma (ovvero compiendo azioni adharma), si genera un'energia che si oppone a questa armonia preesistente, che genera come conseguenza patologie a livello psicologico secondo il principio di azione-reazione che tutti conosciamo a livello fisico, ma che agisce anche su un piano più sottile.

venerdì 8 gennaio 2010

SCIENZA E VEDANTA - LA FORMA UMANA
E L'EVOLUZIONE DELLA COSCIENZA (PARTE QUATTORDICESIMA).
A cura di Andrea Boni.

(La Tredicesima Parte è consultabile QUI)

Il Linguaggio Logico-Razionale e la Descrizione del Piano Assoluto.
L'argomento è alquanto affascinante e ha coinvolto filosofi e pensatori fin dall'antichità. In particolare anche Badarayana dedica un Sutra all'inizio della sua opera per trattare l'argomento. Esistono infatti alcuni testi delle Scritture Sacre che mostrano che l'Assoluto, il Brahman, è ineffabile, al di là di ogni logica empirica e pertanto non è conoscibile e non è esprimibile a parole.





In particolare la Taittirya Upanishad (II.4.12) afferma:

Dal [Brahman] le parole arretrano insieme con il pensiero senza averlo attinto.

Nella Kena Upanishad (I.5) troviamo:

Ciò che non è espresso dalla parola
e che per mezzo della parola è espresso,
quello solo è conosciuto come Brahman;
non ciò che [il volgo] venera come tale.

Sembrerebbe quindi che il piano assoluto, la Realtà nella sua globalità (il Brahman secondo le Upanishad), non è esprimibile a parole. Badarayana afferma:

Sutra I.1.5
Ikshaternashabdam

Ikshateh –perché è visto, Na – non, Ashabdam – inesprimibile.

[Il piano Assoluto, Il Brahman] non è inesprimibile a parole,
poiché i Veda stessi lo insegnano - 5

Commentario Scientifico.
La parola ashabdam utilizzata nel Sutra significa in cui o circa cui la parola non può penetrare o su cui non si può esprimere. Il Brahman non è ashabdam. Al contrario è shabdam, o esprimibile a parole. Perché? Ikshateh, “perché è visto”. Infatti le Upanishad stesse in altri passaggi affermano che al Brahman è assegnata la suggestiva designazione aupanishada; la quale significa che il Brahman è conosciuto attraverso le parole delle Upanishad, ad esempio come citata nella Br.Up. (III.9.26):

Ti chiedo della persona insegnata nelle Upanishad.

Qui l’oggetto della ricerca, la “persona” insegnata dalle Upanishad è chiamata Upanishada, ovvero conosciuta attraverso le Upanishad. Il Brahman, dunque, è esprimibile a parole, infatti troviamo anche il seguente testo della Shruti “Colui che tutti i Veda citano, ecc” (Katha II.15??). E’ anche vero che il Brahman è detto essere ashabdam, ovvero ineffabile, ed è da intedenrsi che non è completamente esprimibile attraverso una logica. Così, come la montagna Meru è detta essere invisibile, nel senso che nessuno la può vedere interamente, ma non significa che è interamente invisibile, allora anche il Brahman è detto essere indescrivibile o inesprimibile, nel senso che non è completamente descrivibile. Se fosse totalmente non conoscibile, allora nella Kena Upanishad non avremmo trovato scritto “conosciLo come essere il Brahman”, perché non è possibile conoscere l’inconoscibile. Inoltre nella frase “da cui la parola torna indietro”, il termine yatah, mostra che la parola non lo raggiunge dopo che lo ha realizzato un poco; la stessa idea è espressa dalla parola aprapya, “che non lo afferra”. Inoltre è scritto che il Brahman rivela se stesso attraverso i Veda. Questa idea non entra in conflitto con la nozione che il Brahman si auto rivela. Infatti in qualche modo i Veda sono il corpo del Brahman. Conseguentemente il Brahman è descrivibile a parole. In questo verso si esprime quanto precedentemente affermato riguardo la valenza del linguaggio logico-razionale. Esso è utile per descrivere una parte della realtà, o meglio, per creare dei modelli rappresentativi di quella che sembra a noi essere la realtà, ma non è sufficiente per descrivere completamente piani di consapevolezza superiori. In questo caso occorre utilizzare un linguaggio diverso con specifiche differenti: il linguaggio interiore, quello della coscienza. Le Scritture Sacre sono una rappresentazione del linguaggio interiore di persone illuminate che hanno “visto” la realtà in modo più completo e che cercano di descriverla. L'uso di differenti linguaggi è tipico anche del mondo dell'informatica. Infatti non esiste un linguaggio di programmazione degli elaboratori che vada bene per qualsiasi applicazione. Potremo usare un linguaggio specifico per progettare l'hardware al livello più basso (il linguaggio VHDL o il VERILOG), un linguaggio per applicazioni generiche, (il linguaggio c o il linguaggio c++), uno per gestire flussi informativi e database (ad esempio l'SQL), ed un altro ancora per progettare applicazioni specifiche multimediali (ad esempio per l'oggi tanto diffuso iphone, come i linguaggi java o object-c e tanti altri ancora). Per ogni contesto occorre utilizzare uno specifico linguaggio. Allo stesso modo Il linguaggio logico-razionale non può spiegare tutto. E' sicuramente utile, ma solo in certi contesti e assolutamente inefficace in altri. Può aiutare a descrivere qualcosa della realtà nel suo insieme, ma non tutto. Ecco quindi l'importanza delle Scritture Sacre (autorevoli). Esse aiutano a descrivere modelli che altrimenti non possono essere espressi. Chiaramente non possono tuttavia descrivere totalmente il piano assoluto.